Speciale mare - Ambiente e percorsi inediti

Il Relitto del LILLOIS

Il Relitto del Lillois da 70 anni al largo di Scalea (Cs)
lillois new“Mattina del 28 marzo del 1943, i piroscafi di preda bellica Lillois, di 3681 tonnellate, e Nantaise, di 1798, procedevano in convoglio, scortati dalla moderna e ben armata torpediniera italiana Sirio. Navigavano sotto costa e, giunti all’incirca al traverso della foce del fiume Lao, alle 10.38 furono proditoriamente fatti segno dal sommergibile britannico Torbay, al cui comando si trovava il tenente di vascello Clutterbuck. Ben quattro torpedini centrarono il Lillois, che delle due navi rappresentava l’obiettivo maggiormente appagante, determinandone l’affondamento in poco più di un’ora. Inspiegabilmente, l’altra nave e la scorta non ebbero a soffrire ingiurie, forse per la temuta reazione dell’unità di scorta, e poterono quindi proseguire indisturbate. Tra i naufraghi raccolti, grazie alla pronta gara di solidarietà dei pescatori locali, si annoverano anche dei feriti che furono dirottati al posto di medicazione situato presso il vicino aeroporto militare di Scalea”
. (tratto da una pubblicazione dello scrittore e storico Alberto Cunto). 
Il Lillois (conosciuto come “Il Vapore” o semplicemente “Il relitto di Scalea”), di costruzione francese, lungo circa cento metri e varato nel 1910, era stato catturato ai francesi il 17 dicembre 1942; dalle 11.46 del 28 marzo 1943 la sua ultima e immutabile dimora è un fondale di circa sessanta metri a largo dell’abitato di Scalea, in posizione 39°05’ Nord e 15°46’ Est . La visione panoramica del relitto nella sua quasi totalità è uno spettacolo mozzafiato; già dopo una quindicina di metri dalla superficie comincia a intravedersi la più alta delle due coffe del piroscafo che si staglia nel blu a una profondità di 36 metri, completamente avvolta da una grossa nuvola di coloratissimi anthias.
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Il Lillois prima del naufragio

 

 

 L'Etna causò enorme tsunami 8000 anni fa 

Le prove in una ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia.
Una frana staccatasi dal fianco orientale provocò una muraglia di acqua che raggiunse Grecia, Turchia, Siria , Israele ed Egitto 
Ottomila anni fa una colossale frana di 35 chilometri cubici di materiale lavico, circa un decimo del cono sommitale dell’Etna, si staccò dal fianco orientale del vulcano e si inabissò nel Mare Ionio, causando uno tsunami a confronto del quale quello del 2004 nel Sudest asiatico impallidisce. Probabilmente il più grande tsunami dalla comparsa dell'uomo sulla Terra. Durante i dieci minuti che la frana impiegò a fermarsi sui fondali dello Ionio, si sollevò in mare una muraglia di acqua a forma di anfiteatro alta fino a 50 metri. Poi l’ondata, viaggiando a velocità fra i 200 e i 700 km all’ora (più lenta nei fondali bassi e più veloce nel mare profondo), si propagò a Est, investendo, in rapida successione, Sicilia Orientale, Calabria, Puglia, Albania, Grecia, Creta, Turchia, Cipro, Siria e Israele; e a Sud, colpendo l’Africa Settentrionale, dalla Tunisia fino all’Egitto. 

LE PROVE - Le prove di quell’antica catastrofe, che spazzò gli insediamenti preistorici costieri del Mediterraneo Orientale e Meridionale, sono state da poco scoperte dai ricercatori dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), grazie a una serie di prospezioni sottomarine e a un’analisi al computer della forma dei depositi abissali. Lo studio, appena pubblicato sull’autorevole rivista scientifica internazionale Geophysical research letters col suggestivo titolo di «Lost tsunami» (lo tsunami dimenticato), è stato finanziato dal Dipartimento di Protezione Civile e rappresenta anche un prezioso contributo per valutare il rischio di possibili maremoti nel Mediterraneo. 

ERUZIONE O TERREMOTO - «Non sappiamo quale fu la causa di quell’immane collasso: forse un’eruzione più abbondante del solito, forse un terremoto – spiega il professor Enzo Boschi, presidente dell’Ingv e autore dello studio assieme ai geofisici Maria Teresa Pareschi e Massimiliano Favalli-. Fatto sta che un’enorme quantità di depositi di lava che si erano accumulati per millenni sul ripido versante dell’Etna affacciato sul Mare Jonio, precipitò giù e finì in parte sulla costa ai piedi del vulcano, e per la maggior parte sul fondo del mare, fino a circa 20 km dalla costa stessa. Le prove del megatsunami e dell’epoca in cui esso avvenne le abbiamo raccolte lì e nei fondali del Mediterraneo, fra gli strati dei sedimenti sottomarini. Sull’Etna, quella che oggi chiamiamo la Valle del Bove, una grande concavità sul fianco orientale del vulcano che raccoglie gli attuali flussi di lava diretti verso Est, è la cicatrice residua di quel lontano evento, in gran parte colmata dalle successive eruzioni». 

TSUNAMI DIMENTICATO - Ma perché si parla di "tsunami dimenticato"? «Perché le tracce, sotto forma di depositi caotici scaraventati dalle onde del maremoto sulle coste del Mediterraneo, oggi non sono più visibili – aggiunge l’altro autore dello studio, la professoressa Maria Teresa Pareschi della sede Ingv di Pisa -. Infatti, negli ultimi 8000 anni, il livello del mare è ovunque salito di diversi metri a causa della deglaciazione. Quelle che erano le località costiere di allora, ora sono sommerse». Allo scopo di ricostruire gli effetti del cataclisma, spiega la Pareschi, sono stati necessari due tipi di ricerche: «Da un lato una campagna di prospezioni sismiche, con terremoti artificiali effettuati nel Mare Jonio di fronte all’Etna, che ci ha permesso di ricostruire i profili dei detriti franati giù e di concludere che i volumi del materiale oggi sommerso corrispondono a quel che si staccò dal monte, formando la Valle del Bove. Dall’altro una simulazione dello tsunami al computer, grazie alla quale abbiamo potuto ricostruire sia le modalità di propagazione delle onde di maremoto, sia le perturbazioni risentite fin negli abissi, dove i sedimenti che giacevano sul fondo del mare, furono violentemente sconvolti, assumendo un configurazione caratteristica. Analizzando poi le attuali carte batimetriche, cioè della topografia del fondo marino, abbiamo ritrovato proprio quel tipo di configurazione descritta dalla nostra simulazione al computer». 

SIMULAZIONE - Ma eccola la simulazione del «Lost tsunami», un'animazione tridimensionale a colori, che i ricercatori ci illustrano mentre le immagini scorrono su un grande schermo nei laboratori Ingv di Roma. Mostra, innanzitutto, la muraglia d’acqua che, pochi minuti dopo il grande "splash", si abbatte sulla costa orientale della Sicilia: Catania, Siracusa e Messina, senza passare praticamente nel Tirreno grazie allo sbarramento dello Stretto. Quindi, dopo un quarto d’ora, viaggiando nello Jonio, raggiunge la Calabria, dove le onde sono ancora alte 40 metri. Fra una e due ore dopo tocca alle zone costiere dell’Albania e della Grecia di essere sommerse da 10-15 metri d’acqua. Due-tre ore dopo è la volta della Libia, della Tunisia e dell’Egitto, raggiunte da ondate di 8-13 metri. Tre-quattro ore dopo, vengono inondate le spiagge del Libano, Israele e Siria, ma stavolta con altezze dell’onda più modeste (si fa per dire), attorno a 4 metri. A quei tempi la civilta’ neolitica era fiorente nella Mesopotamia (fra il Tigri e l' Eufrate), con molti villaggi dediti all’agricoltura e all’allevamento del bestiame; ma ancora diradata nel Mediterraneo. Tuttavia, sulle sponde del Vicino Oriente e dell’Africa Settentrionale dovevano esistere diversi insediamenti costieri che furono spazzati via dalle ondate. «Proprio in Israele c’è, secondo noi, l’unica testimonianza tuttora emersa del disastroso impatto costiero dello tsunami: il villaggio neolitico di Atlit-Yam che, come risulta dagli scavi archeologici, fu abbandonato improvvisamente – riferisce la Pareschi, che ora sta estendendo l’appassionante ricerca ad alcuni aspetti paleoambientali -». 
SANTORINI E ATLANTIDE - Una ricaduta storica della nostra ricerca consiste nell’aver provato che alcuni depositi sottomarini del Mediterraneo Orientale, prima attribuiti a un’eruzione del vulcano Santorini, in Grecia, sono invece dovuti al collasso dell’Etna di 8000 anni fa. E perché no, lo stesso mito di Atlandide, la misteriosa isola inghiottita dalle onde di cui parla Platone, potrebbe essere nato dal megatsunami dell’Etna". Il passo successivo che i ricercatori dell’Ingv intendono compiere è di verificare se le mega-frane dell’Etna in grado di suscitare maremoti hanno, come si sospetta, una certa periodicità. La caccia alle tracce sotto forma di particolari depositi terrestri e sottomarini è aperta: «Con lo scopo di essere consapevoli di eventuali rischi ricorrenti e di allestire per tempo adeguate misure di controllo e di prevenzione», conclude il professor Boschi. 
Articolo di Franco Foresta Martin 

vedi articoli correlati: Eruzioni vulcaniche recenti e terremoti nell'Italia meridionale


 

Il Vulcano sottomarino Marsili: rischio di maremoto nel Tirreno - allarme dal CNR 

Il vulcano sottomarino Marsili, al largo del Golfo di Policastro, potrebbe provocare un terrificante Tsunami

Niente allarmismi, ma un monitoraggio del Golfo di Policastro, si renderebbe davvero necessario. Non tutti sanno che l' area tra Campania Basilicata e Calabria è cinturata da una serie di vulcani potenzialmente pericolosi: il Palinuro, ma soprattutto il Marsili (qui accanto un' immagine ricostruita del vulcano sottomarino Marsili).. Lo studio del C.N.R. ne ha rilevato gli aspetti più pericolosi. Alto 3000 m. il vulcano sottomarino Marsili dista 150 km. a sud del golfo di Napoli e 70 km. dalle isole Eolie. Si sviluppa da 3000 a 505 m. di profondità. Lungo 55 km. e largo 35, ha due milioni di anni, le sue fumarole furono riprese nel 1990 da un video-robot di ricercatori americani.
Non meno pericoloso è il Palinuro, altro vulcano sommerso della cintura Tirrenica. Dista circa a 150 km. dal golfo partenopeo e a 83 dalla costa calabra di Diamante, in direzione nord-est rispetto al Marsili. L'origine risale a meno di due milioni di anni fa. 
La pericolosità di questi vulcani è legata al fatto che possono essere definiti una vera e propria cintura di fuoco immersa negli abissi: il Vesuvio, il Marsili, il Valinov, il Palinuro, i vulcani delle Eolie. Il loro risveglio potrebbe essere drammatico per i paesi costieri della Calabria, della Campania e della Basilicata.  Di qui, la necessità di "non abbassare minimamente la guardia", senza drammatizzare i toni delle notizie che gradualmente si ricevono, ma sviluppare iniziative sempre più fitte di "Ricerca e di Monitoraggio Avanzato".


Scoperto il più grande vulcano d'Europa, il Marsili, in piena attività, a metà strada tra Salerno e Cefalù 
Coste del Tirreno meridionale a rischio maremoto. Uno tsunami, un' immensa onda simile a quelle che periodicamente si abbattono sui Paesi del Pacifico (come Giappone e Indonesia), potrebbe infatti colpire Calabria, Campania e Sicilia.
L'allarme arriva dal progetto Tirreno del Cnr, una serie di ricerche che hanno portato alla scoperta del più grande vulcano d'Europa, il Marsili, un gigante in piena attività che si innalza di 3.000 metri dal fondo del Tirreno meridionale, a metà strada tra Salerno e Cefalù, arrivando fino a -500 metri, lungo 65 chilometri, largo 40 e con un volume di 1.600 metri cubi.
"Sui fianchi del Marsili - ha detto il responsabile del progetto, Michael Marani - si stanno sviluppando numerosi apparati vulcanici satelliti, m
olti dei quali hanno dimensioni comparabili con il cratere dell'isola di Vulcano". Su alcuni dei vulcani sottomarini, ha aggiunto, "sono state identificate le tracce di enormi collassi di materiale dai fianchi e questi collassi potrebbero provocare maremoti estremamente pericolosi per le regioni costiere, in particolare le Eolie, Calabria e Campania". Il Tirreno è il mare più giovane del Mediterraneo, ha poi rilevato lo studioso del Cnr, "e per questo è ancora molto instabile e riuscire a capire e monitorare questi fenomeni è importante, perché, non essendo visibili, possono dar luogo a rischi elevati".
Oltre al Marsili, nel Tirreno (tra Sardegna e Lazio) c'è un altro grande vulcano sottomarino, il Vassilov, che però, essendo più vecchio (6-7 milioni di anni fa contro i 2 del Marsili), è anche più stabile.
Ma dal fondo del mar Tirreno non arrivano soltanto insidie. Infatti, le ricerche del Cnr, ha osservato Marani, "nella porzione sommersa dell'edificio vulcanico di Panarea, a circa 80 metri di profondità, hanno scoperto l'esistenza di depositi di solfuri di piombo, rame e zinco, ossidi ed idrossidi di ferro e manganese, giacimenti che in un futuro prossimo potrebbero anche essere sfruttati economicamente".

Il progetto ha inoltre messo in luce il destino del materiale eroso dalle montagne che circondano il Tirreno, trasportato dai fiumi fino al mare. Sono stati infatti evidenziati sistemi di drenaggio sottomarino attraverso cui i sedimenti vengono trasferiti dalle aree costiere alle porzioni centrali abissali del Tirreno. I più importanti assi di questi sistemi di drenaggio sono il Canyon di Stromboli e la Valle della Sardegna, posti rispettivamente nel versante calabro ed in quello sardo.
Questi canali sottomarini, larghi fino a 4 chilometri e profondi centinaia di metri, solcano i fondali con lunghezza fino a 250 chilometri. I ricercatori del Cnr hanno navigato per 100 giorni nel Tirreno, percorrendo 36.000 chilometri, per portare a termine la prima carta geologica di un mare intero.

 

 

 

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